Attraversando gli ampi viali, le enormi piazze e gli spazi tra i caseggiati, si viene subito colpiti dal silenzio che regna in questi luoghi. Non si fatica ad immaginare che, prima di quel tragico gennaio 1968, le cose non fossero come oggi. Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, una serie di scosse devastò la valle del Belìce. Distrusse alcuni paesi, altri li danneggiò in maniera gravissima. I segni di questa immane e improvvisa tragedia, che scoperchiò tutte le profonde mancanze e arretratezze del territorio, sono ancora tutti lì. Tra i resti, lasciati come tali volutamente a testimonianza. Tra le assenze e i vuoti che la ricostruzione hanno portato con loro. I vecchi paesi troppo compromessi dal sisma furono abbandonati e furono edificati in nuovi siti secondo logiche moderne e visionarie, chiamando a raccolta architetti e urbanisti di fama mondiale. Ma questa ricostruzione non tenne conto dei vecchi impianti urbani, né rispettò il modo di vivere dei suoi abitanti. Questa nuova concezione, totalmente differente dalla vecchia, portò gli abitanti in uno stato di confusione e disaffezione. Le nuove piazze, le nuove chiese, le nuove abitazioni, non hanno avuto lo stesso potere aggregativo e sociale dei vecchi luoghi. Ed ecco che, nel tempo, le grandi opere hanno perso il loro appeal, le prime case sono state abbandonate e nella valle è iniziato un progressivo svuotamento. La vita è ripresa come prima ma scorre altrove, tra le campagne, ora più lontane. E sui centri abitati sembra esser caduta una pesante e silenziosa coltre di oblio.